La Grande Distribuzione e la solidarietà

[Fonte immagine: https://www.theguardian.com/world/2020/apr/01/a-beautiful-thing-the-african-migrants-getting-healthy-food-to-italians]
Cheikh makes a delivery to one of the co-operative’s regular customers. Foto di Giacomo Sini per l’articolo ‘A beautiful thing’: the African migrants getting healthy food to Italians. https://www.theguardian.com/world/2020/apr/01/a-beautiful-thing-the-african-migrants-getting-healthy-food-to-italians
Con l’esplodere della pandemia si sono moltiplicate le reti di solidarietà, i banchi alimentari e mille forme di distribuzione domiciliare di farmaci e generi alimentari per persone anziane, malate, indigenti o impossibilitate a muoversi. Senza queste reti attivate da parrocchie, sindacati, municipi e da innumerevoli associazioni informali di volontariato, molti sarebbero rimasti indietro, molti non ce l’avrebbero fatta, molti avrebbero visto ancor più peggiorare la loro già misera e precaria condizione. Questo ci insegna che il cuore di una società alla fin fine è la mutua assistenza e la solidarietà, fuori da schemi e pregiudizi.

Ma è avvenuto anche che la grande distribuzione, diretta e online, ha fatto un iperbolico balzo in avanti in questi mesi di coronavirus, sostenuta da un lato dal bisogno psicologico di massa di fare acquisti bulimici (quintali di carta igienica, metri cubi di acqua minerale, ettolitri di disinfettanti, merendine, precotti, surgelati, …) e dall’altro dalla capillare e inaspettata rete di consegne a domicilio. Una vera pacchia per il business della grande distribuzione, le cui nefandezze sono ben descritte nel libro “Il grande carrello: chi decide cosa mangiamo” di F. Ciconte e S. Liberti. “Il supermercato è il terminale ultimo di un intreccio di rapporti produttivi, sociali ed economici di cui l’acquirente finale nulla sa e nulla deve sapere”, intreccio fatto dalla disperazione dei piccoli produttori agricoli strangolati da politiche dei prezzi criminali, dal lavoro nero, dallo schiavismo, dal caporalato, dall’iperchimica dell’agricoltura industriale, dallo scempio del territorio, dalla rapina delle risorse naturali e dell’acqua, dalla morte della biodiversità, dalle patologie legate all’alimentazione.

Ci piace tutto questo? No.

Allora se vogliamo iniziare a pensare a un “dopo” radicalmente diverso dal “prima” dobbiamo anche ragionare in maniera diversa dal “business as usual”, estendere la critica anche a territori che per pigrizia intellettuale non siamo abituati ad esplorare.

Diamo forza ai circuiti alternativi, ai piccoli produttori agricoli, biologici, locali (AGRICOLI, BIOLOGICI, LOCALI), che si organizzano per distribuire autonomamente i prodotti nel raggio di pochi chilometri e fanno sacrifici immensi per non soccombere e tenere aperta una opzione radicalmente alternativa al sistema iperliberista della Grande Distribuzione.